∞ Stefanauss ∞

una sana overdose di me.

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Camera oscura

with one comment

Scrivo solo perchè scripta manent.

Non ci sono altre ragioni per provare a descrivere questo sogno, ma voglio ricordarlo in futuro. Per motivi che mi saranno chiari solo in divenire, ovvio.

Tutta la mia famiglia e i nonni materni siamo in vacanza in montagna. Lo so perchè è l’unico posto dove io abbia mai visto la neve, e questa è presente in abbondanza. Per quanto l’esterno mi sia sconosciuto, l’interno è identico a quello della casa dei nonni paterni in Sila, ma senza neanche una finestra. Papà e nonno Salvatore sono seduti sul claustrofobico divano rosso, Nonna Carmela sfoggia il suo metro e cinquantasei sulla soglia della cucina. Mamma e Martina non le vedo, io siedo al tavolo.

Il Nonno Salvatore si sente male. Il suo colorito è acceso di rosso, tiene una mano stretta al petto. Io so che è un infarto, ma la presa al petto è strana e quasi buffa: sembra sul punto di cantare l’Inno.

Non si muove freneticamente, anzi ondeggia mentre con la bocca mezza aperta cattura ogni volta pochissima aria. Ricordo di aver pensato che era di un silenzio estremo quell’infarto. L’unico suono nella stanza era quello delle imprecazioni di un secondo Nonno Salvatore, in tutto e per tutto identico al primo se si eccettua il miglior stato di salute. Maledice l’altro sé stesso, colpevole di trapassare senza troppo savoir faire.

So di essere stato preoccupato tutto il tempo. Solo preoccupato, non angosciato o disperato. L’atmosfera era del tutto permeata dalla comune considerazione che si, tanto, c’era un Nonno di riserva.

Poi cambia tutto. Non di colpo, non vortica tutto, non volo io, niente di metafisico. Come quando ti addormenti davanti ad un film che volevi proprio vedere e trovi una scena con personaggi, luoghi e suoni totalmente cambiati ma tu sai che è lo stesso film.

Io e la mia amica E. ci incontriamo ad una festa. Una di quelle con un sacco di gente sudata che ti balla quasi addosso, ma della quale la birra servita nei bicchieri di carta ti può solo far pensare “Mocciosi”. Non dovevamo incontrarci, succede. C’è pochissima luce.

Parliamo a bassa voce, una conversazione tranquilla che sarebbe impossibile in una realtà dove i casini, sotto forma sonora, si propagano. Sfortunatamente le succede di scoprire una mia bugia superdotata: lunga e grossa. “Cazzo”, penso.

E. gira lo sguardo, serra un po’ la mascella, scende dal bancone su cui era stata tutto il tempo e gira sui tacchi senza una parola in più. Provo a seguirla, ma ora la ressa nel locale è tornata a seguire alla lettera le prescrizioni scientifiche: impenetrabilità della materia.

Questo è il momento in cui, lo dico ora, sarebbe stato pessimo, davvero pessimo svegliarsi. Per fortuna non accade. Passa del tempo, parecchio tempo.

Tanto tempo senza più nulla di E. Non so dove si trova, come sta e perché sta come sta. Mi rendo conto che ho passato gran parte di questo tempo a guadagnarmi un perdono che, vai a sapere perché, sono convinto di meritare. Scrivo delle lettere e non ne ricevo alcuna.

Un’altra città, un posto affollato di un’altra città. Tanta gente di altri posti, in questo posto. Tutti sembrano diretti verso altri posti tranne me, che sembro l’indigeno, il pellerossa che accoglie sorridente  i coloni ignaro di quello che gli accadrà. Sto parlando con uno di loro.

E. mi scorge da molto lontano nonostante la folla. La vedo avvicinarsi piano piano, mano nella mano con tutte le sfumature di incredulità di cui la riconoscevo capace, più qualche altra new entry.
La tua espressione non si dimentica.
Sento distintamente i meccanismi svizzeri del feeling ripartire, sebbene non in grande stile. Tanta polvere e ruggine e stridii fastidiosi.

Cavolo, sei molto più bionda di come ti avevo lasciata. Anche perché eri mora. Mi piaci così.
Tu senti il bisogno di chiedermi se io sia io. Se la tua espressione di prima fosse stata un fumetto, nessun altra domanda sarebbe stata più a suo agio nella nuvoletta.
Non mi sono mai sentito la persona più adatta a rispondere.
Per te faccio un’eccezione.

Vivere con E. è divertente nei sogni. E’ il tipo di ragazza che la prima volta che sali in camera sua, pensa bene di fornirti l’ubicazione della camera sbagliata (o l’ubicazione sbagliata della camera, come uno preferisce leggere). Della casa sbagliata.
Entrare in una camera, accendere la luce e sorprendere nel sonno due infanti sconosciuti non è stato piacevole. Più per loro che per me vista la somiglianza tra la mia comparsa e quella dell’Uomo Nero, ma non posso certo curarmi degli incubi dei miei sogni.
Siamo pari ad ogni modo: la comparsa dei loro genitori è stata più spiacevole per me che per loro.

Quando torno sulla retta via E. si sforza di non ridere. Faccio finta di niente anche io, perché so che così la diverte di più. Concludo che è meglio mettermi comodo prima di darle la giusta soddisfazione: mi sdraio sul divano, la testa sulle sue gambe, e sfogo il mio rallegrato rancore ricevendo in cambio  nient’altro che la più appassionata indifferenza.

Il suo seno mi da fastidio. Riesco a vederle il viso a malapena, dalla posizione in cui sono. Ho l’impulso di spostarle.

Buongiorno. Ciao E., neanche avresti dovuto esserci in questo capolavoro onirico.
Desiderei tanto sapere perché sono passato dalla terza alla seconda persona, e ritorno.

P.S. Questo post è anche un doveroso omaggio ad una mia ex-buona intenzione.

Written by stefanauss

venerdì.25.luglio.2008 at 0:39